Sabato al villaggio Ottomano di Raskarkar
Alcuni mesi fa, all’inizio di dicembre quando il sole e’ ancora caldo, ma non troppo e stare fuori e’ ancora piacevole, un sabato mattina mi sono unita ad un gruppo di “hikers” uomini e donne, internazionali e palestinesi che ogni fine settimana organizzano delle “camminate” nella West Bank, a volte i luoghi scelti per queste scampagnate corrsipondono a siti di interesse storico artistico, quella mattina la destinazione era Raskarkar, un villaggio a circa mezz’ora di macchina da Ramallah, dove, spiegava la mail del coordinatore del gruppo di hikers, si trovava un castello che avremmo potuto visitare alla fine della camminata.
Il gruppo di hikers e’ composto da alcuni fedelissimi che tutte le settimane si ritrovano e da altri che, come me, partecipano saltuariamente, quella mattina, insieme agli internazionali ovvero coloro che provengono da vari paesi del mondo e si trovano in Palestina per lavoro, c’erano anche alcuni Palestinesi, in particolare un professore di storia dell’universita’ di Birzeit che ha spontaneamente condiviso con noi altri e altre le sue conoscenze arricchendo le nostre conoscenze e dandoci degli strumenti per leggere meglio il territorio attirando la nostra attenzione su alcuni particolari raccontandoci la loro storia.
Come di consueto ci siamo dati appuntamento alle nove del mattino davanti all’hotel Amassador nel quartiere di Sheih Jarrah a Gerusalemme Est, da li, siamo partiti e lungo la strada da Gerusalemme a Raskarkar ci siamo fermati un paio di volte ad aspettare quelli che arrivavano da Tel Aviv. Arrivati al villagio di Raskarkar, il coordinator del gruppo, un inglese di circa quarant’anni, esperto in quest’attivita’, mostra la piantina con il sentiero fra le colline che avremmo dovuto seguire, ma prima di incammincarci, decide di contattare il responsabile delle chiavi del castello per mettersi d’accordo sulla visita. Si presenta un giovane uomo, robusto che incuriosito dalla nostra attivita’ decide di accompagnarci lungo il sentiero, rendendo superflua la cartina con tutti i sentieri che lui conosce come le sue tasche.
Finalmente, zaini in spalla, ci mettiamo in marcia.
Queste passeggiate, sono belle occasioni di socializzazione e soprattutto permettono di conoscere il territorio, la West Bank o Cisgiordania, da punti di vista inconsueti, intimi e grazie alla lentezza tipica del camminare, che rispetto alla macchina ha il vantaggi di potersi fermare ogni volta che si vuole, si possono mettere a fuoco i dettagli che caratterizzano il paesaggio lunare di questa parte della Palestina, si possono fare fare fotografie dalle cime delle colline e ci si puo’ incantare ad ammirare il paesaggio, in quella stagione, nei mesi di dicembre, gennaio e febbraio, alcuni giorni l’atmosfera e’ cosi’ cristallina che dalle cime piu’ alte si arriva a vedere la Giordania, lo spettacolo e’ cosi’ bello che ogni volta io ne rimanga ammaliata.
Da una delle stradine semisfaltate del villaggio ci infiliamo in un sentiero e cominciamo a scendere seguendo i solchi di queste colline terrazzate piene di alberi di olivo, di salvia, di timo e origano con cui viene fatto lo za’ter, una prelibatezza ottenuta lavorando queste due erbe con i semi di sesame e l’olio di oliva.
Come molte altre volte anche quella mattina, frag li alberi d’olivo intenti a lavorare abbiamo incontrato quei palestinesi che tenacemente resistono all’occupazione israeliana continuando a coltivare le loro terre e all’invasione straniera concentrata fra Ramallah e Gerusalemme che con i progetti di cooperazione allo sviluppo e’ responsabile di una singolare forma di economia locale che limita la propria azione solo ad alcuni settori totalmente disinteressata ad un reale investimento socio economico che coinvolga tutta la complessa realta’ palestinese.
Ma, e’ solo percorrendo a piedi zone non altrimenti accessibili che si entra in contatto con la violenza dei coloni israeliani che nella West Bank, stanno portando avanti quel piano di conquista coloniale iniziato alla fine del XIX secolo e mai interrotto.
Anche gli abitanti di Raskarkar sono vittime dei coloni israeliani insediati nei loro fortini costruiti sulle cime delle colline con case prefabbricate che niente hanno a che fare con la tradizione architettonica palestinese, ma che purtroppo definiscono lo sky line della Cisgiordania.
Mentre zigzagando fra le rocce stavamo scendendo a valle ci siamo imbattuti in una distesa di alberi di ulivo bruciati. La vista di queste scene, amaramente famigliari a chi vive qui, non smette mai di sorprendere e amareggiare. Bruciare gli ulivi palestinesi e’ un gesto di una violenza brutale, perche’ queste piante sono fonte di sostentamento economico famigliare, perche’ sono piante secolari dai tronchi larghi formati da rami enormi e vecchi intrecciati fra di loro cosi’ sapientemente da sembrare sculture, perche’ gli ulivi testimoniano la presenza palestinese sul territorio e la loro sapiente cultura nel trattamento di questi alberi amati dalla popolazione locale.
Mentre il giovane uomo responsabile della chiave del castello ci raccontava che le fiamme scatenate da quel rogo criminale erano cosi’ alte da aver danneggiato gli ulivi sulla collina dirimpetto separata da una strada, noi, tutti stavamo in silenzio a guardare con un forte senso di impotenza, noi cosi’ vicini ai palestinesi che lavoriamo per istituzioni cosi’ lontane da queste cose.
Proseguendo lungo il percorso, ormai incuranti della cartina, abbiamo cominciato a risalire lungo quella strada che divide la collina e abbiamo prseguito nella piacevole scalata. Nuovamenti immerse nella natura ci siamo trovati davanti resti di colonne, e di un villaggio di cui non rimane piu’ niente eccetto quella che era una moschea, piccola, curata nei dettagli, anche lei sistematicamente assaltata dai coloni israeliani come testimoniano le scritte in ebraico sui muri e i segni dei numerosi fuochi piu’ volte appiccati. Dopo una breve sosta proseguiamo oltre in cerca di un posto dove fermarci a mangiare e riposarci e dopo un po troviamo uno di quei luoghi che la natura sembra aver pensato come area di sosta.
A questo punto, eravamo a meta’ del percorso cioe’ al punto in cui si fa il giro di boa e si riprende la strada del ritorno, erano passate circa due ore e mezzo. La giornata era splendida e la collina non era affatzo difficile da scalare.
Durante la strada del ritrorno gli hikers sono solitamente piu’ rilassati, hanno un’idea della distanza che devono percorrere e del livello di difficolta’ del territorio e possono dosare le proprie risorse energetiche lasciandosi andare e concedendosi soste per raccogliere salvia e ramerino, ma soprattutto per chiacchierare con piu’ spensieratezza.
Finalmente rientrati a Raskarkar, il giovane uomo responsabile delle chiavi ci introduce in quello che viene erroneamente chiamato il castello e che invece e’ un palazzo, dalle dimensioni importanti, visibilmente antico e parzialmente restaurato. Bello.
Cosa ci fa un palazzo di queste dimensioni a Raskarkar?
Fuori, accanto al portone di ingresso, una targa ci informa che Riwaq, una organizzazione palestinese grazie alle donazioni di non mi ricordo piu’ quale paese e’ responsabile dei restauri.
Come tutti gli altri comincio ad aggirarmi fra le stanze, a salire scalini ripidi che mi introducono in altri luoghi, sui muri e sui soffitti gli affreschi recuperati, le porte, le finestre restaurate rispettando canoni e criteri locali.
Purtroppo il giovane uomo non sa raccontarci molto del bel palazzo e cosi’ quando torno a casa apro la mia mail e scrivo a Riwaq chiedendo piu’ informazioni e scopro cosi’ che l’organizzazione sta lavorando ad un progetto chiamato “50 villages” per cui sono stati selezionati cinquanta villaggi nella West Bank e a Gaza che durante la dominazione ottomana erano sedi amministrative decentrate dell’impero. Lana, l’archietetta con cui parlero’ mi racconta che i “throne villages” villaggi del trono, erano stati individuati e scelti dai funzionari ottomani perche’ in quella che oggi chiamiamo West Bank, definizione geografica utilizzata dagli inglesi quando si sono sostituiti all’impero Ottomano all’inizio del XX secolo e che la distingueva dalla East Bank, ovvero il territorio dove si trova oggi la Giordania utilizzando come linea di separazione il fiume Giordano, c’erano solo due realta’ urbane importanti: Gerusalemme e Nablus, troppo distanti l’una dall’altra in un’epoca in cui i mezzi di trasporto erano ancora affidati agli animali e per poter mappare il territorio e riscuotere le tasse correttamente, l’impero comincio’ a costruire palazzi amministrativi, che poi svolsero anche altre funzioni, in queste aree remote.
Le vicende che hanno investito la Palestina nel XX secolo hanno rigettato nell’oblio questi luoghi e i bei palazzi e le case antiche sono caduti in un disastroso stato di abbandono.
Riwaq, dopo aver esplorato e catalogato tutti gli edifici e in generale i luoghi di interesse storico architettonico artistico nella Striscia di Gaza e nella West Bank, ha cominciato a lavorare al recupero di queste preziose testimonianze storico artistiche.
Il lavoro di questa organizzazione e’ particolarmente importante se teniamo conto della situazione politica palstinese e soprattutto della sistematica politica di Israele che mira a cancellare distruggendole le testimonianze della presenza araba sul territorio.
Il recupero fisico delle strutture antiche insieme ad una progettualita’ che coinvolge gli abitanti di questi luoghi, che valorizza le tradizioni agricole e culinarie locali, sono solo alcune della attivita’ che Riwaq porta avanti grazie ad un gruppo di architetti e ingegneri competenti e motivati.
Sul sito www.riwaq.org si trovano tutte le informazioni e soprattutto tante belle pubblicazioni di quello che si puo’ definire patrimonio storico minore.
A chi ha voglia di conoscere la Palestina piu’ approfonditamente suggerisco di venire a visitare questi posti, contattando Riwaq e’ possibile organizzare delle visite guidate che aiutano a conscere e di comprendere la complessita’ sociale, economica, politica, storica di questo che nonostante tutto resta uno straordinario paese e del carattere della sua gente.
Da Ramallah
federica